L'impatto delle nuove imprese
Le nuove imprese - quelle con meno di 10 anni di vita - sono quelle che creano più ricchezza, posti di lavoro e innovazione [Haltiwanger (2022) riferendosi al mercato statunitense]. Ma il 60% delle startup fallisce, e solo una piccola parte ha davvero successo. Le ragioni più comuni sono la mancanza di interesse da parte degli utenti e problemi di usabilità [Gutbrod et. al. (2018)]: le ipotesi e le supposizioni fatte dalle startup spesso non tengono conto del reale comportamento delle persone. Il ritorno economico per chi decide di diventare imprenditore è generalmente negativo: guadagna meno di una persona con le stesse qualifiche che è impiegata, tant'è che qualcuno si chiede quali bias cognitivi portino le persone a fare impresa [Astebro et. al. (2014)].
Persino gli investitori (i venture capitalist), ovvero le persone che dovrebbero essere le più esperte nel valutare quali idee finanziare, hanno una capacità di prevedere quale startup avrà successo pari a 0. O, per la precisione, 0.1 di correlazione fra valutazione e performance [Kerr et. al. (2014)].
Da un punto di vista complessivo il meccanismo comunque funziona e genera valore: le poche startup che hanno successo ripagano abbondantemente il fallimento o la crescita modesta di tutte le altre. Ma per le persone che falliscono le ricadute possono essere estremamente negative, soprattutto se nel farlo investono tempo, denaro, energie. Le persone che falliscono devono sopportare un costo economico, sociale, relazionale e psicologico [Ucbasaran et. al. (2013)]:
- economico (perdono soldi e opportunità di guadagno);
- sociale - causato dallo stigma del fallimento (che può avere implicazioni negative anche sulle future opportunità lavorative)
- relazionale, poiché spesso le conseguenze economiche si riperquotono anche sulle persone vicine;
- psicologico: emotivo (vergogna, umiliazione, rabbia, senso di colpa, paura delle conseguenze negative), motivazionale, e di messa in discussione della propria auto-efficacia.
Non solo: le persone che iniziano una attività imprenditoriale tendono a farla sopravvivere anche quando i risultati sono deludenti, per una serie di motivi psicologici [et. al. (2016)]:
- la fallacia del costo irrecuperabile (sunk cost fallacy), un bias cognitivo che si verifica quando le persone continuano un comportamento o un'impresa pur di non perdere le risorse precedentemente investite (tempo, denaro o sforzo) senza valutare che il rapporto fra costi e benefici futuri è comunque negativo;
- il desiderio di non arrendersi e di rimanere coerenti con la propria immagine di sé come imprenditori;
- la speranza che gli affari possano migliorare, anche in assenza reali evidenze.
Le ragioni dei fallimenti
Nell'intraprendere una attività, le persone e le organizzazioni formulano delle ipotesi in merito alla efficacia nel raggiungere un risultato e nel generare valore. Questo vale anche per le attività imprenditoriali. Il problema sorge nel momento in cui queste ipotesi rimangono implicite e non vengono testate. In una azienda consolidata il problema è meno evidente: se l'azienda è sopravvissuta per anni significa che le ipotesi implicite tutto sommato tengono. Ma nel caso delle start-up, soprattutto se innovative, il rischio che le ipotesi siano sbagliate e che l'attività sia destinata a fallire è estremamente alto.
È possibile immaginare un processo sistematico, capace di ridurre i rischi e i costi di fallimento, aumentare la redditività e le probabilità di successo?
Naturalmente il rischio non si può eliminare, soprattutto se si intende intraprendere un progetto fortemente innovativo. Ma quello che si può fare è adottare dei processi che - almeno in parte - migliorino le probabilità di successo o diminuiscano il costo dell'insuccesso.
Nell'analizzare questi processi ci riferiremo ad alcuni stereotipi di imprenditore, e alla loro attitudine nei confronti delle proprie idee e della modalità di verificarle.
Piccola annotazione: in questo post userò, per brevità, il maschile sovraesteso, ma il discorso vale per imprenditori e imprenditrici; e userò in maniera intercambiabile nuove imprese e startup, anche se, tecnicamente, le ultime si riferiscono principalmente ai settori più tecnologici e digitali; e molte di queste osservazioni valgono anche per project manager e per chiunque abbia potere decisionale.
Gli archetipi che analizzeremo sono colui|colei che:
- sa tutto (el mona sa tuto)
- apprende (startup as a learning process)
- sperimenta (lean startup)
- affronta (e risolve) i problemi (problem solver)
- sviluppa (theory building), falsifica e aggiorna teorie, ovvero modelli del mondo in cui l'impresa si colloca.
Quello che sa tutto
In un contesto non proprio dinamico come quello italiano, l'imprenditore (o il manager) fin troppo spesso è quello che fa perché sa. Sa cosa vuole il mercato e sa come farlo. Per chi, come me, si occupa di UX research questa è la situazione più frustrante. E chi, come me, è nato nel nordest, non può non ricordare l'adagio veneto che "el mona sa tutto". Il loro approccio tutto sommato regge - o quantomeno non genera disastri evidenti - per varie ragioni: spesso i progetti che portano avanti non sono granché innovativi, e dunque tutto sommato rimangono in un contesto che, in effetti, hanno imparato a conoscere. Soprattutto, per le aziende di lungo corso - soprattutto in ambito b2b - le dinamiche di mercato sono più legate alle capacità di vendita e alla rete commerciale che al valore del prodotto. Infine spesso queste aziende hanno le spalle abbastanza larghe da sopravvivere a prodotti mediocri che, per una startup, ne decreterebbero il fallimento.
Overconfidence
Nelle scienze cognitive "el mona sa tutto" si chiama overconfidence:
- mi credo più bravo di quello che sono
- mi credo più bravo degli altri
- ho troppa fiducia nella correttezza delle mie idee
- sono eccessivamente ottimista
Un moderato ottimismo è positivo, un eccessivo ottimismo è deleterio. Ok bicchiere mezzo pieno, no bicchiere tutto pieno.
Soprattutto è deleterio essere sicuri delle proprie idee. È questo il fattore più critico. Definire delle ipotesi è necessario, ma è altrettanto necessario farsi un quadro più verosimile del contesto ed esercitare un pensiero critico sulle proprie idee e i propri assunti.
La troppa fiducia nelle proprie idee è il più pericoloso dei bias di overconfidence per una startup: essere convinti di un'idea, investire tempo denaro e risorse e poi scoprire che l'ipotesi era sbagliata è ciò che causa l'alto tasso di fallimento. Per ridurre questo rischio è necessario verificare le proprie ipotesi.
Nella letteratura accademica dedicata allo strategic management l'atteggiamento degli imprenditori finalizzato a elaborare e validare le ipotesi è definito in base a differenti metafore:
- studente - apprendista (learner)
- sperimentatore
- scienziato
- problem solver
Il processo finalizzato a minimizzare il rischio di fallimento è definito in base a differente metafore: processo di apprendimento, di sperimentazione, di ricerca scientifica, di problem solving.
Apprendimento
Per ridurre il rischio di imbarcarsi in una avventura imprenditoriale destinata a fallire è necessario fare una serie di valutazioni, attraverso un percorso di apprendimento, che deve iniziare ancora prima di muovere i primi passi. Bennett et. al. (2023) hanno fatto un sondaggio in un campione di persone statisticamente rappresentative della popolazione statunitense, chiedendo loro se avessero immaginato di aprire una attività. Ne è emerso che sono moltissime le persone che ci hanno pensato. Nel sondaggio gli autori hanno indagato quali comportamenti le persone mettono in atto dal momento in cui immaginano di iniziare un'impresa. Più in dettaglio hanno chiesto quali di queste azioni avessero intrapreso:
- parlarne con un amico
- fare benckmark
- consultare un esperto
- fare una presentazione
- creare un sito web
- fare 2 conti (creare un foglio excel con possibili spese e introiti)
- fare un business plan
- fare una vendita, ovvero trovare il primo cliente vero
- creare un prototipo
- raccogliere feedback dai consumatori
- fare pivot a seguito dei feedback
- cercare finanziamenti
- applicare ad un incubatore o acceleratore
- approfondire gli aspetti legali e fiscali
- aprire una partita IVA
- assumere una persona
- licenziarsi per fare l'imprenditore a tempo pieno
Sorprendentemente la maggior parte di questi prospective entrants esplora solo una minima parte delle attività che potrebbe permettere loro di farsi un'idea più chiara.
Secondo gli autori, un motivo è che ogni processo di apprendimento, anche se economicamente poco oneroso, ha un costo di implementazione. Alcune attività, però, sono decisamente abbordabili, eppure molte delle persone che hanno immaginato di avviare una attività non le hanno fatte, e Bennett et. al. (2023) si chiedono il motivo. Le loro ipotesi sono che comunque quei processi di apprendimento hanno un costo cognitivo e che forse le persone non si aspettano di ottenere informazioni così utili. A mio avviso ci possono essere altre due ragioni. La prima è che molti di loro non sono davvero motivati: ci hanno fatto un pensierino, hanno annusato l'aria ma non si sono mossi oltre; la seconda: molti probabilmente non hanno idea di come muoversi, di cosa cercare, di dove cercarlo, di cosa fare.
Sperimentazione
In parte diversa - ma complementare - è la prospettiva in cui le imprenditrici e gli imprenditori vengono visti come attori impegnati in attività di sperimentazione: generano delle ipotesi su come creare valore, e sperimentano al fine di testare le loro ipotesi.
Il modello che più ha diffuso e reso comune questo approccio è quello delle lean startup [Reis (2011); Blank (2013)], che si propone di offrire un metodo scientifico alla creazione di startup.
Il processo prevede una serie di passaggi [Bortolini et. al. (2021)]:
- definire una visione di business: è la fase di ideazione di una ipotesi di prodotto o servizio;
- formulare un modello di business e delle ipotesi ad esso correlate;
- definire degli esperimenti finalizzati a verificare o falsificare le ipotesi;
- misurare i risultati degli esperimenti;
- interpretare i risultati per modificare le ipotesi, in un processo di apprendimento.
Questo processo viene definito apprendimento validato dagli esperimenti. In base ai risultati dell'esperimento si decide di:
- iterare, ovvero fare dei miglioramenti incrementali e aggiustamenti al modello di business o al prodotto o servizio, cercando di migliorare la soddisfazione dei clienti o l'efficienza operativa;
- fare pivot, ovvero fare un cambiamento radicale di una o più aspetti del modello di business;
- scalare: se i feedback degli esperimenti sono molto positivi si fanno investimenti finalizzati alla crescita e all'espansione dell'azienda, entrando in una fase di maturità;
- abbandonare, se gli esperimenti mostrano ripetutamente che l'ipotesi di business non funziona.
Nella lean startup vengono proposti diversi tipi di esperimenti:
- ricerca qualitativa con le persone (interviste, sondaggi)
- creazione di prototipi da testare
- siti web con (finte) pagine di lancio; smoke tests (creare delle call to action per dei prodotti o delle funzioni non ancora esistenti)
- creazione di un Minimum Viable Product (MVP), ovvero la più semplice versione funzionante del prodotto o servizio.
Cosa sperimentare
Poiché testare tutto non è possibile, è necessario identificare quali ipotesi vanno falsificate per prime. Nel definire quali supposizioni testare, è utile creare una tassonomia e una gerarchia [Gutbrod et. al. (2018) ].
- impatto dell'ipotesi: quali sono le ipotesi che, se falsificate, avrebbero un impatto maggiore (in senso negativo) sulla possibilità di generare valore? Quanto la sua falsificazione potrebbe avere un impatto critico sulla idea di business?
- valutazione del rischio: è possibile stimare la probabilità che l'ipotesi sia falsa?
- quanto bene conosciamo il tema legato all'ipotesi? Quanto abbiamo elaborato questa ipotesi?
- a quale dimensione d'impresa è legato il rischio?
- rischio legato al prodotto (ad esempio rischio tecnologico)
- rischio legato alle motivazioni e ai comportamenti dei clienti e degli utenti (ai potenziali utenti la soluzione non interessa)
- rischio legato al mercato, ad esempio alla concorrenza
- altri rischi (legali, economici)
Dell'approccio lean mi piace l'idea di "uscire dall'ufficio" (get out of the building) per parlare con i possibili clienti/utenti e per testare le ipotesi. Creare dei prototipi o dei MVP per capire se una soluzione può funzionare o no è molto, molto meglio dell'approccio "sviluppiamo tutto che tanto sappiamo cosa serve".
Ciononostante, ci sono un paio di aspetti che non mi convincono. Concordo con l'idea che pianificare troppo, in contesti molto dinamici, serve a poco. Ma non mi convince l'idea che l'approccio scientifico alla creazione di aziende che funzionano si debba basare esclusivamente su questi esperimenti. Perché la scienza non funziona così. Nella scienza si sviluppano dei modelli teorici, ed in base a quelli si progettano gli esperimenti. L'approccio lean, al contrario, è molto "ateorico", e questo ha dei limiti. In primo luogo perché non è possibile testare tutto. Anche perché testare ha un costo, non solo economico ma di tempo, di reputazione, e psicologico. Ma soprattutto perché fare un prototipo e testarlo è un tipo di apprendimento per prove ed errori. Che è una modalità utile, ma non l'unica. Scienziati (e imprenditori) usano molti altri strumenti cognitivi e metodologici per imparare e per trovare delle soluzioni praticabili.
Felin et. al. (2020) avanzano obiezioni molto simili alle mie, sostenendo che l'attitudine molto pratica e poco teorica del metodo Lean costituisce il suo limite principale. Gli autori sostengono l'importanza di formulare in maniera precisa il problema, sviluppare un modello (una teoria) e una ipotesi di soluzione, e solo allora immaginare degli esperimenti - che per quanto minimal hanno un costo - e metterli in atto.
“whether you can observe a thing or not depends on the theory which you use. It is the theory which decides what can be observed” (Polanyi, 1974: 64)
Una teoria ti serve perché quello che sai puoi testarlo meno. Un mese in laboratorio può salvarti un'ora in biblioteca.
Ricerca
Secondo Camuffo et. al. (2024) gli imprenditori, per minimizzare il rischio d'impresa, soprattutto negli ambiti innovativi e nelle start-up, dovrebbero assumere un atteggiamento e una metodologia di gestione tipica della ricerca scientifica.
La differenza sostanziale rispetto alla metodologia lean è l'enfasi sulla necessità di creare e sviluppare delle teorie.
Gli autori definisono le teorie come sistemi di idee o concetti finalizzati a spiegare, fare previsioni, o ipotizzare l'esistenza di un fenomeno e che sono basati su principi generali.
Camuffo et. al. (2024) presentano un lavoro sperimentale. Lo studio ha coinvolto 4 classi di giovani inprenditori (età media 33 anni, neoimprenditori) a cui è stato offerto un corso di formazione di 8 sessioni, in cui sono stati affrontati temi quali business model canvas, problem validation, ricerca empirica (osservazioni, interviste, questionari), definizione della soluzione, raccolta di dati. Per ogni classe i partecipanti sono stati divisi, in maniera casuale, fra un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo. Le sessioni e le ore di formazione erano le stesse, gli argomenti gli stessi ma, al gruppo sperimentale, fu insegnato di adottare un approccio scientifico sperimentale: sviluppare una teoria in merito al modello di business, sviluppare delle ipotesi da verificare o falsificare nella fase di ricerca, usare gli strumenti di ricerca (interviste, osservazione, questionari) per verificare o falsificare le ipotesi, aggiornare la teoria e definire una possibile soluzione.
Il fine dell'intervento era di insegnare agli imprenditori e imprenditrici a sviluppare delle teorie - dei modelli concettuali - che li aiutassero ad identificare in maniera più efficace sia i possibili problemi che le possibili soluzioni, ed utilizzassero i metodi di ricerca sia per costruire le teorie (theory building) che per metterle alla prova.
L'idea è di orientare i processi decisionali verso un approccio di definizione del problema (problem framing), esplorazione dello spazio del problema e definizione delle possibili soluzioni.
Il passaggio successivo consiste nel definire delle ipotesi, legate alle teorie, e trovare il modo di testarle, al fine di ottenere delle evidenze - o quantomeno delle indicazioni - in merito alle supposizioni alla base delle ipotesi. I test - gli esperimenti - permettono dunque di verificare o falsificare le ipotesi e di aggiornare il modello. La teoria così evoluta aiuta gli imprenditori a fare delle scelte più informate, riducendo il rischio, e di scegliere se continuare a fare esperimenti, investire nel progetto, fare pivot o uscire.
Dunque si mantiene l'idea di fare degli esperimenti per testare, verificare o falsificare le ipotesi, ma solo dopo aver costruito un modello concettuale.
Lo studio ha misurato tre variabili dipendenti:
- il numero di termination, ovvero le startup chiuse;
- il numero di pivot radicali, che gli autori definisciono come cambi strategici al business model originale, in termini di value proposition o di segmento di consumatori;
- il guadagno medio delle imprese nei mesi successivi.
Dai risultati sono emerse differenze significative su tutti e tre i parametri misurati: nel gruppo sperimentale (gli imprenditori a cui è stato insegnato il metodo) si sono riscontrate più chiusure, un numero diverso di pivot e un guadagno medio più alto. I risultati vanno letti con attenzione, senza trarre eccessive certezze. Il fatto che nel gruppo sperimentale ci siano state più chiusure rispetto al gruppo di controllo è un dato interessante che può essere interpretato in termini positivi. Come sappiamo la maggior parte delle startup fallisce, e rendersi conto che un'idea non funziona prima di bruciare troppe risorse e troppo tempo è una cosa positiva, e dunque il maggior numero di chiusure è un dato che - nel contesto - può essere visto favorevolmente. Naturalmente positivo è il dato sulla maggior redditività, anche se dobbiamo tener conto che - per una start-up - all'inizio la redditività non è il parametro più importante.
Anche per quanto concerne il parametro dei pivot il profilo del gruppo sperimentale era differente dal gruppo di controllo. Sebbene la maggioranza delle start-up, in entrambi i gruppi, non abbia mai fatto pivot nei mesi di follow-up del corso di formazione, nel gruppo sperimentale era più probabile facessero una o due pivot. Nel gruppo di controllo era più probabile ne facessero più di due.
Problem solving
Il comportamento delle persone è determinato da abitudini, attitudini, bisogni e scopi. Se una persona (un gruppo di persone) non riesce a soddisfare uno scopo, ha un problema. Che, per una startup, può rivelarsi una opportunità, se trova il modo di risolvere il problema di quel gruppo di persone [Baggen et. al. (2015)].
E questa è una prospettiva che vede gli imprenditori (e le aziende) impegnate in un processo di problem solving.
Tecnicamente, vi è un problema nella circostanza in cui un agente (una persona, una organizzazione) vuole raggiungere uno stato desiderabile (o evitare uno stato non desiderabile) ma trova un ostacolo. L'ostacolo può essere che non sa come fare, che non ha gli strumenti o le risorse. Se qualcuno trova un modo (tecnologicamente, economicamente, socialmente, ambientalmente sostenibile) per risolvere quel problema, ovvero per permettere a quel gruppo di persone di realizzare lo scopo, quella diventa la value proposition.
Il processo implica l'identificazione di un problema o un ostacolo, la comprensione delle cause e del livello di complessità del contesto, attraverso anche la raccolta e l'analisi di ulteriori informazioni; una rappresentazione, esplicita o implicita, del problema, l'analisi delle componenti; la generazione di possibili soluzioni, la loro valutazione; una soluzione viene scelta e implementata; il processo viene monitorato e i risultati, anche parziali, vengono valutati.
In questa prospettiva l'azienda o l'organizzazione (non necessariamente startup) viene vista come una entità finalizzata al problem solving. Questo approccio ha una lunghissima tradizione, che parte da Herbert Simon e passa per la teoria comportamentale dell'azienda (The Behavioral Theory of the Firm: Ocasio (2011) )
Nella prospettiva di Herbert Simon il design è una forma di problem solving: si definisce il problema, si raccolgono informazioni (e si fa ricerca con le persone), si generano delle idee, si sviluppano, si valutano, si testano, si implementano, si raccolgono feedback e si itera. Quello che ne emerge è una soluzione a un bisogno o ad uno scopo.
Il ruolo dell'UX
Come chiunque abbia qualche anno di esperienza sul campo sa, nelle organizzazioni in cui chi prende le decisioni è convinto di sapere già tutto la persona con il titolo di UX, se c'è, di fatto si occupa di bassa (fig)manovalanza: lo spazio per fare ricerca e progettazione è davvero limitato.
In tutti gli altri scenari (processo di apprendimento, sperimentazione, ricerca, problem solving) il ruolo della ricerca è evidente - anche se non è detto che in una startup ci siano le risorse per una figura specifica che si occupa di UX research e design.
Identificare i bisogni delle persone, fare emergere la conoscenza di utenti e di esperti di settore è l'aspetto caratterizzante e distintivo della UX, e questo approccio è del tutto coerente con la visione delle organizzazioni come finalizzate al problem solving. Chi si occupa di UX è però spesso meno portato a ragionare in termini di modelli teorici da costruire, aggiornare e falsificare. Questo potrebbe invece essere un approccio che permette di fare un salto di qualità. Nella mia visione il fine del processo di UX research e design è quello di porsi una serie di domande: chi sono i nostri utenti/clienti, quali sono i loro bisogni, come il servizio che stiamo progettando può aiutarli, e la ricerca serve a falsificare gli assunti (nostri e degli stakeholder), aggiornare il modello ed usarlo per progettare una soluzione centrata sulle persone.